New Orleans, 1987.
Vecchio giovedì sera, probabilmente erano le sette, il buio era a dir poco inquietante fuori dalla finestra: Novembre non si smentisce mai. Il clima era esattamente di quel freddo autunnale che ormai sta volgendo all’inverno, ma non quell’inverno accogliente, delle sensazioni piacevoli e nostalgiche, non il morbido inverno della neve; no.
Quell’inverno inquadrato, severo, accompagnato dalla pioggia decisa che sembrava frantumare i vetri, avvolto da un silenzio tutt’altro che tranquillo: quell’inverno.
Capita che, almeno nella mia cittadina, verso Ottobre, forse inizio Novembre, le varie associazioni legate al comune organizzino eventi vari e celebrazioni per rallegrare la tristezza e la monotonia del periodo appena descritto; per un po’ funzionava, ma era tutto talmente concentrato in uno stesso periodo che il traffico diventava talmente ingestibile da essere irritante quasi quanto la noia , e, più spesso ancora, si annuvolava, pioveva, diluviava.
Complementari a queste occasioni, però, c’erano anche giornate in cui le cose andavano bene, i turisti entravano e uscivano dalla cittadina a fiumi e gli incassi erano stupefacenti.
Il problema è che, finite quelle, da inizio Novembre fino a Natale, le grandi manifestazioni e gli eventi imperdibili lasciavano il vuoto.
Così passavano le mie giornate: una rassegna con tutto ciò che dovevo ricordarmi di fare e di studiare e via, si parte!
La scuola sembrava un luogo allegro e solare, quasi caldo, rispetto a tutto quello che avevo intorno, ma la verità è che io amo il freddo e amo Novembre (monotonia a parte), mentre odio il caldo e l’appiccicoso.
Ansia.
Fatto sta che appena tornavo a casa pranzavo alla svelta, mi buttavo sopra i libri e alcune volte andavo a correre, quando il tempo lo permetteva, anche se il fumo mi stava rubando ogni briciolo della mia resistenza polmonare e ogni volta andava peggio, pazienza.
La sera era il momento più bello e confortante. La passavo avvolta in una vecchia coperta marrone troppo vecchia e troppo corta per coprirmi tutta, una tazza di cioccolata calda, programmi televisivi di cui non ho mai imparato i nomi e il rumore della gelida pioggia pietrificata e schiantata sulle nostre finestre, mi sembrava di vivere in un film.
Forse lo facevo apposta.
I miei amici? Il mio gruppo si era fottuto. Probabilmente parecchia della colpa era mia e non ho fatto nulla per tenermeli stretti, tornassi indietro cambierei tutto, lotterei per averli vicini, ma ero sicuramente troppo stanca, turbata e scazzata, se vogliamo dirla tutta, per andare lì a riprenderli.
E nulla, questi erano i pensieri, monotoni, acidi, apatici, durante la mia contemplazione alla finestra di quel vecchio giovedì sera che puzzava tanto di vino rosso, tappi di sughero e scoiattoli morti.
-Toc. Toc.
Hanno bussato, sussultai e andai alla porta.
Niente, impressione mia, non ha bussato nessuno.
Mi dimenticai presto della faccenda e tornai a perdermi nei miei ragionamenti futili e disinteressanti, quando suonarono, stavolta, con un fare deciso e intenzionato a entrare. A quel punto non avevo dubbi.
-Chi è?
-Polly. –la voce era quella di una ragazzina.
-Oh, ciao. Cerchi qualcuno?
-Hellen Moore.
-Sono io, che succede?
-Fa freddo. Posso entrare? È lungo da spiegare.
-Certamente, terzo piano.
Aprii la porta e aspettai l’ascensore arrivare, non avevo idea né di chi fosse, né di come fosse fatta, né il motivo della sua visita, ma ero molto curiosa. Casa era completamente vuota, avevo già pulito e, in qualche modo, mi sentivo motivata.
L’ascensore restò fisso al sesto piano, la vidi arrivare a piedi.
Mi ero sbagliato sull’averla immaginata una ragazzina di non più di dodici anni, a vederla avrà avuto poco meno della mia età, sui quattordici anni, forse quindici.
Indubbiamente era una tipa sfarzosa. Aveva dei pantaloni arancioni che le stavano troppo larghi, un cappotto nero pesantissimo, un maglione bianco abbondante che ricopriva un corpo magrissimo, un cappello verde di quelli da pittore che vanno di moda ora sopra a un’abbondante chioma rossa e dei curiosi occhi azzurri, forse verdi? Non vedevo bene, era ancora a qualche scalino dalla mia porta.
Aveva il viso torturato e lo sguardo esausto, il fisico di una ragazza dimagrita tantissimo in poco tempo senza nemmeno volerlo, gli occhi tra il sollevato e il confuso. Non avevo idea di come interpretarla, ma aveva qualcosa di tremendamente familiare.
-Ti ha davvero fatto tutto questo? –i suoi racconti erano impressionanti
-Sì, ero a Tacoma. Stavo uscendo dal Community World Theatre, era stata una delle giornate più belle della mia vita, fino a quel momento. –iniziava a balbettare; il mio amico ero andato a cercare i suoi, mia sorella si era allontanata per prendere dell’acqua e la gente cominciava ad andarsene. Due minuti dopo ero sola in mezzo al buio delle due di notte. Quattordici anni e senza un minimo senso dell’orientamento. Dio, non posso crederci che ne sto parlando. Mi ritroverà. Lui, io, sono troppo vicina, non so dove andare, non so come tornare a casa.
-Hey, non preoccuparti, è lontano, non può sapere che sei qui. Sei al sicuro. Menomale che hai i vestiti pesanti, sono abbastanza puliti? Ti senti bene?
-Li ho rubati dall’armadio di sua sorella, ma non se ne è accorto.
-Perfetto, vuoi fare una doccia? Vuoi dormire un po’?
-Voglio tornare a casa ora, solo tornare a casa.
-Va bene, ora chiamo a casa. Sai il numero, vero?
-Non abbiamo un telefono di casa.
-Non importa, chiameremo la polizia e loro ti riporteranno a casa, okay?
Annuì, ma il suo viso restava teso, senza che i suoi occhi perdessero della loro vita.
-Intanto parlami un attimo di come sono andate le cose, come sei riuscita a scappare? Come mi hai trovata?
Continuavo a chiedermi perché avesse bussato proprio qui.
-Dopo avermi rapita mi ha portato lontano. Era freddo. È stato orribile, io, mi sembra di vivere un’altra vita, non so come stia riuscendo a parlare, io, i-io ero terrorizzata. Ho finto che mi piacesse tutto quello schifo che mi costringeva a passare e… ho guadagnato la sua fiducia. Era un pazzo, era pazzo, era fuori di testa. Lo era abbastanza da credermi, ha iniziato a fidarsi.
Non so quante ore fa erano, di preciso, ma eravamo a una stazione di servizio e si è fermato per fare benzina. Stava parlando con un barista e sono fuggita. All’inizio non se ne accorto, ora non so dov’è, sarà infuriato, come minimo. Per questo sono terrorizzata. Ho corso tantissimo, non ho mangiato nulla, non ho bevuto nulla. Ho visto le luci di una cittadina e ho suonato al primo campanello che ho trovato. Mi dispiace. Io non sapevo cos’altro fare. Voglio solo sia finito. Voglio casa mia.
-Ommioddio, non ho parole.
La mia testa era vuota. Provavo indubbiamente tanta stima per la sua forza, per come ne è uscita, ma allo stesso tempo mi sentivo male come non mi ero mai sentita in vita mia. La pioggia descriveva alla perfezione il mio sentimento: deciso, ammirato, infranto, confuso.
Abbassò lo sguardo e scoppiò in un pianto silenziosissimo ma omicida, cominciavo a non capire davvero nulla.
Dio, che storia.
-Ehm, ascolta, Polly, mi sento stupidissima! Non ti ho offerto del cibo! Ti do alla svelta qualcosa da magiare, anche perché non so cucinare altro che pasta in bianco e tanta tanta acqua, va bene? E poi chiamo la polizia. Tu cerca di star bene, l’incubo è finito.
-Grazie;
dopo qualche secondo aprii gli occhi e alzò lo sguardo, quasi riuscì a sorridere, la sua fronte si stava distendendo, piano piano, a eccezione dei momenti in cui tornava a pensare al suo incubo. Come ha fatto a parlarne?
Cucinai della pasta e le diedi la frutta, del cioccolato che avevo rimasto in casa, tantissima acqua e dei biscotti.
Finì tutto in meno di cinque minuti, affamatissima e soddisfatta, ma lasciò i biscotti.
-Non ti piacciono?
-Quelli, quelli li mangiavo lì, non voglio più vederli
-Oh, oddio, scusami, ti porto qualcos’altro.
-Voglio dei cracker.
-Non li ho.
-Li vorrei.
Era tutto così paradossale, corsi a chiamare la polizia.
-Pronto? Polizia di New Orleans, come posso esserle d’aiuto?
-Correte, vi prego! C’è una ragazza che è stata rapita da un pedofilo e stuprata e…- Cercavo di non parlare forte per non farle sentire, mi girava la testa.
-Non ci dica altro, solo l’indirizzo.
-Solo lungo la Road 79, vicino all’uscita dell’autostrada, al numero 126. Moore.
-Cinque minuti e siamo lì.
-Dio, grazie.
Chiusi la chiamata,
tornai in salone con una cioccolata calda in mano.
-Direi che questa te la meriti; sorrisi.
La bevve tutta d’un sorso e poi sorrise anche lei, stavolta davvero.
-Se devi ricordarti qualcosa da quest’esperienza, ricorda che hai un’amica in più.
-Lo terrò a mente, grazie.
Le erano rimaste poche lacrime sul viso, finalmente.
Suonò la polizia: -è qui la ragazza?
-Eccomi!- sussultò - Portatemi a casa presto, vi prego.
-Certo, ci serve un indirizzo però!
I poliziotti erano simpatici, non si sarebbe trovata troppo a disagio.
Aveva un’espressione quasi apatica, non realizzava nulla di quello che stava succedendo, da una parte meglio così.
E mentre la polizia la incitava alla porta e la sua chioma galleggiava nell’aria mentre scuoteva la testa, mi tornò in mente una cosa.
-Polly!
-Sì?
-Come mai quando hai suonato hai chiesto di me? Come conoscevi il mio nome se hai suonato il primo campanello che hai trovato?
Mi fissò un po’ e poi sorrise, che sorriso complicato che aveva, così malinconico, non trovai nemmeno il coraggio di insistere o chiederle altre spiegazione.
E poi l’avevo già vista.
Magari avevano fatto qualche annuncio al telegiornale, forse mi ricordava qualcuno.
Quella ragazza mi lascerà un vuoto nel petto a vita.
Polly wants a cracker.
N.d.A. L'ho scritta alle due di notte, ci ho messo un bel po' di tempo e mi sono informata, ovviamente molto è frutto della mia immaginazione, quindi se qualcosa non è preciso perdonatemi, grazie di cuore a chi è arrivato fin qui, vi amo tutti.