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Poggiò con delicatezza il suo borsone semi-vuoto per terra.

Un'aria gelida gli scostò i lunghi capelli biondi dal viso, scatenando un improvviso brivido lungo la sua scheletrica schiena.

Si portò una mano sugli occhi per coprirseli. Lo affascinava tutto ciò che comportava l'assenza di qualcosa, l'impercettibile cambiamento di sensazioni, il passaggio da uno stato fisico all'altro; riusciva a cogliere la minima variazione riguardante il suo essere, cio' che di più profondo aveva, quello che la fama e il successo tentavano di oscurare ogni giorno di più.

Si sentiva in trappola, in quella gabbia dorata di media e giornalisti, fatta solo di falsità e gente senza scrupoli, che sfruttava ogni minima insicurezza o paura di un artista per renderlo schiavo del denaro e di cio' che esso comporta.

I suoi immensi occhi azzurri furono oscurati da un buio improvviso; la sua mano quasi li stringeva, come se non volesse mosrare loro le crudeltà che solo quel mondo era in grado di dare.

Sentì dentro di se' una sensazione quasi misantropa: odiava quella massa di gente accalcata attorno a lui che voleva informarsi di ogni più piccolo particolare, bramosa di scoop, di qualcosa di inedito, di novità che non avrebbero cambiato la vita a nessuno.

Odiava il mondo in cui la verità veniva sempre oscurata, così come stava facendo lui con la sua vista.

La differenza era che lui agiva in quel modo proprio perchè voleva essere cieco a quelle ingiustizie che nessuno avrebbe mai potuto risanare. Il mondo della musica sarebbe sempre stato così: una verità oscurata da una telecamera, una messa a fuoco sul mondo ben poco veritiera e nitida come al contrario voleva apparire.

L'unico modo per fuggire dalla crudele realtà che lo circondava era la droga.

Non che non gli andasse, di farsi, solo che non era stata una scelta comandata copletamente dal suo istinto.

Era più una valvola di sfogo, un luogo in cui rifugiarsi, una maniera per evadere dal dolore che gli provocava cio' che lo circondava e gli si accaniva contro.

Si accese una sigaretta, respirò a pieno il fumo; gli entrò nei polmoni, li avvolse, lo circondò, contaminò una parte della sua esistenza. Espirò tossendo perchè aveva fatto un tiro troppo lungo. Ne fece un altro, stavolta più breve ma più intenso; si sentì liberato per un secondo dallo stress che lo attanagliava. Sentiva che la morsa stritolatrice interiore che lo teneva intrappolato aveva allentato per un istante la sua presa omicida.

Poi aveva ricominciato a trafiggergli l'anima, a pesare sulle spalle, a scavargli tra le costole e a tartassargli le vertebre.

Ebbe un fitto e lancinante dolore allo stomaco. Era come se centinaia di coltelli affilati lo avessero trapassato in un istante, monopolizzato tutto il suo estremo dolore in un punto di incontro per scagliarlo contro la sua coscienza ripetutamente.

Guaì.

Le braci della sigaretta gli bruciarono i jeans sgaulciti e sporchi che indossava fino a bucarli. Sentì il bruciore di quella piccola ustione marchiarlo lentamente.

Tossì.

Scagliò una pietra nel fiumiciattolo che scorreva sotto quel ponte.

Sopra ad esso, nel frattempo, passò una macchina, nella quale risuonava "Something in the Way", facilmente riconoscibile dalle sue note tristi, cedevoli, quasi mortificanti.

Kurt si mise a canticchiarla, facendo propagare quel suono tra i muri della città grigia in cui era appena arrivato, scappando dalla fama, dal successo, da tutto quello che aveva.

Quella canzone l'aveva scritta ripensando a quel lontano Aprile del 1984, quando aveva appena abbandonato gli studi e lasciato con freddezza e convinzione quella che tutti definivano "la sua famiglia"- poichè lui non la considerava tale.

In quel periodo Kurt visse sotto un ponte. Proprio come quello dove si trovava in quel momento.

Rise all'idea di essere scappato via così, senza dover dare spiegazioi a nessuno.

Nemmeno a Krist o a Dave, che erano i suoi migliori amici.

Il fatto era che lui odiava tutti.

La fuga era l'unico spiraglio di luce che gli rimaneva- insieme alla droga - in quella sua vita così maledettamente incasinata.

Con un vetro di bottiglia trovato per terra si incise nella carne una grande e ben visibile "N" sul polso. "N" stava per "Nirvana", perchè erano loro la causa di tutto quel dolore ma anche di tutta quella minima felicità che lo avevano colpito negli ultimi anni.

Il sangue gli colò lungo la manica della maglietta, rendendola ancora più sudicia.

Nonostante il dolore attraversasse il suo corpo penetrandolo sempre più in profondità, Kurt si lasciò cadere per terra e si mise a ridere.

Rise pensando al casino che lo avrebbe travolto al suo ritorno a casa.

Rise pensando che tutto era iniziato e che un giorno molto probabilmente sarebbe finitò proprio lì, sotto un ponte.

Rise dalla disperazione.

Si mise a cantare per nascondere il dolore, per accantonarlo in un angolino buio della stanza e fare finta che non esistesse.

Poi pianse, pianse tanto.

Tirò un grido di rabbia, frustrazione, amarezza.

E nessuno lo avrebbe mai potuto comprendere a fondo.

Era l'inverno del 1991.

Kurt Cobain sarebbe morto tre anni dopo.



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