1 aprile 1994
Los Angeles, California
Che volete che dica, alla fine sono qui.
A pezzi, con il pancreas che si contorce nel solito tentativo di scacciare i bruciori dati dalle quantità assurde di alcool che mi scolo, ma sono qui. In qualche modo, sono ancora qui. All'ultimo momento stavo per mandare all'aria tutto come al solito ma sono comunque venuto, alla fine.
Prima o dopo sento che si rifiuterà di continuare questo gioco ed esploderà, per ora non voglio fasciarmi la testa. Voglio dire, che dovrei fare? Smettere? Mettermi la testa a posto? Scuoto la testa e una signora seduta composta a due sedie da me aggrotta le sopracciglia.
Non ho neanche voglia di provocarla con qualche gesto eclatante, sono proprio fritto questa sera.
Stravaccato nella mia solita mise a base di pelle nera, maglietta bianca con il logo dei Sex Pistols e stivali, tiro fuori una sigaretta dalla giacca. Guardo il display che annuncia che i gate per l'imbarco non sono ancora aperti, poi sposto lo sguardo all'enorme orologio di quell'aeroporto da strapazzo. Le 22.54. Ho tempo.
Un suono snervante, il solito che ogni santa volta che ho il mal di testa non la smette di martellare. Il mio gate ha aperto. Buttate la scaletta, arriva Duff Mckagan.
Sbuffo mentre ripongo la sigaretta in tasca e raccolgo lo zaino abbandonato sotto la fila di sedie metalliche da attesa composta che tanto non avrei rispettato in ogni caso.
Lentamente mi metto in fila e dopo nemmeno due minuti di coda sono faccia a faccia con l'uomo dei biglietti. In realtà non è che ci sia poi un granché di gente che vola a quest'ora. Giusto una rockstar che se ne torna a casa.
L'uomo mi squadra per un secondo cercando di non farsi notare mentre stringe biglietto e passaporto tra le dita, poi annuisce e dopo l'usuale “Buon viaggio signor Mckagan” di cortesia, mi restituisce i documenti e mi lascia passare.
Attraverso la passerella guardando fuori dai soliti vetri sporchi il mio aereo che si prepara a spiccare il volo. La prima classe mi aspetta, spero di perdere la cognizione del tempo e dello spazio il prima possibile così non dovrò sorbirmi due ore di volo fino a Seattle. Fino a casa.
In un secondo mi trovo davanti una bionda vestita in tailleur che mi mostra un sorriso smagliante e allunga la mano per afferrare il mio biglietto.
“Benvenuto in prima classe, mr. Mckagan” dice entusiasta.
Sono talmente amareggiato dalla mia sobrietà e dalla noia che non vedo l'ora di essere seduto nella mia poltrona a sorseggiare champagne, non ho nemmeno voglia di buttare un occhio sulla hostess e quella sembra quasi restarci male.
Essere Duff Mckagan è stancante.
Lo è specialmente quando sei distrutto e vorresti solo arrivare al tuo posto per ubriacarti e svegliarti nella solita città – solita nel senso che tanto è sempre diversa da quella della sera prima – con una bionda di cui non ricordi nemmeno il nome, figurati ricordarsi dove l'hai raccattata.
Vorrei, invece sono ancora qui a fare lo slalom tra uomini incravattati e signorine che mi offrono invano il loro aiuto per sistemare il mio bagaglio nell'apposito spazio. Cercando di non essere troppo scontroso, nonostante il mal di testa che ormai mi sta uccidendo, declino l'offerta dal momento che, cazzo, sono alto quasi due metri e tra l'altro non ho ancora deciso dove sedermi.
Mi guardo intorno per un istante e finalmente intravedo un posto libero, fortunatamente è lontano da qualsiasi finestrino. Sembra che il posto affianco al mio sia già occupato da qualche zotico ma queste dannate poltrone sono troppo alte per vedere persino per me. Non che io sia interessato a chi dovrà sopportarmi ubriaco per tutta la durata del viaggio. Di questo passo lo passerò a dormire però, non vedo nessuno di interessante.
Ancora qualche passo tra gente che cerca di scorgere il mio volto dietro gli occhiali da sole e finalmente eccomi arrivato. Faccio per sistemare lo zaino sopra il posto 23c quando lo sguardo mi cade su un ragazzo biondo cenere, i capelli ridotti uno schifo, lo sguardo perso, la testa appoggiata allo schienale, un maglione di flanella verdognolo addosso, un paio di jeans bucati, converse nere che avranno qualche anno, la barba incolta, un braccio appoggiato al bracciolo della poltrona.
Che mi venga un colpo, ma questo è Cobain.
Kurt Cobain, impossibile non riconoscerlo. Mi sembrava di averlo intravisto in aeroporto ma mi ero seriamente domandato se fosse lui o una delle mie ormai frequenti allucinazioni. Volevo solo fumarmi la mia sigaretta prima di salire su questo strafottutissimo aereo.
Mi sfilo gli occhiali e buttò lì un “Hey” cercando di sorridere. Lui mi guarda neanche granché sorpreso e mi saluta senza troppo entusiasmo. Poi mi siedo ma fortunatamente non iniziano le solite domande di cortesia del cazzo perché nessuno dei due ne ha voglia né è il tipo da domande di cortesia.
“Come va?”
Anche se non sono esattamente l'ideale di amico o anche solo di vicino di viaggio che Kurt avrebbe voluto, io sono abbastanza felice di aver incontrato un volto conosciuto, se non altro mi distrarrà dal fatto che ci troviamo su una macchina volante che si appresta a raggiungere i 4000 metri da terra. Ho idea che a prescindere dall'identità della persona che avrebbe occupato quello che ora è il mio posto, avrebbe preferito restare da solo eppure, per qualche motivo, dal momento che abbiamo iniziato a parlare è stato come ritrovare un vecchio amico. In fondo siamo della stessa città, siamo cresciuti con il punk, suoniamo in due grandi band… e se devo dirla tutta non mi è mai dispiaciuta la musica dei Nirvana. Nemmeno ad Axl è mai dispiaciuta, solo che lui è un cazzone. Non che io non lo sia. Anzi, con tutte le probabilità lo è anche Kurt. Se non altro è una delle poche distrazioni che mi posso permettere su questa prigione volante.
“Sono appena uscito dal centro di riabilitazione Exodus” mi dice leggermente demoralizzato piegando la testa nella mia direzione.
'Uscito' è un eufemismo, glielo si legge in faccia, e così scopro che è nella mia stessa situazione, fottuto, che si è trascinato su questo cazzo di aereo per scappare in qualche modo dall'ennesima clinica. Tutto questo mi suona stranamente familiare.
“Sì, lo conosco.”
Pian piano prendemmo sempre più confidenza l'uno con l'altro e persino lui che inizialmente non sembrava voler parlare un granché, non rifiuta il giro di vodka che gli offro.
Dopo non molto attacchiamo a parlare della scena musicale di Seattle e scopriamo di avere in comune molte più cose di quelle che immaginavo; sorso dopo sorso diventiamo sempre più sinceri e ci confidiamo come due che però non hanno molta voglia di passare per mammolette, così mezze confessioni del tipo “sono scappato da una clinica” vengono tradotte silenziosamente in “sono a pezzi e so che lo sei anche tu ma non lo direi mai ad alta voce”.
Se ci penso è stato assurdo: i Guns e i Nirvana si odiavano. Vorrei dire che era tutta una cosa tra Axl e Kurt… ma mentirei. Anche io e Slash non ci siamo risparmiati, specialmente io con Krist. Un sera, nel backstage degli MTV Music Awards, attaccai briga per una stronzata qualsiasi. Mi era parso di sentire qualcuno che sfotteva la band o qualcosa di simile. Ovviamente senza pensarci due volte presi a litigare con il bassista della nostra band rivale e per poco non venimmo alle mani.
A ripensarci ero ubriaco fradicio…come al solito.
“Mi dispiace amico. Adesso cosa farai?”
“Non lo so, davvero. Penso a mia figlia e al resto… sta andando tutto a rotoli. Non mi importa più di nulla, nulla ha più la stessa intensità e io non so davvero cosa fare per risolvere questa situazione. Non riesco a trovare una via d'uscita semplicemente.”
Lo capivo, eccome se lo capivo – nonostante non avessi ancora una figlia. D'un tratto era come se mi si fossero aperti gli occhi nei suoi confronti. Kurt era ridotto come me, forse anche peggio. Con i nostri dolori calmati da droghe pesanti, con il nostro atteggiamento che ci stava allontanando dai nostri amici, con i nostri eccessi, ci stavamo scavando la tomba da soli e neanche troppo lentamente.
Nonostante l'effetto dell'alcool non scendemmo più di tanto in profondità nei nostri discorsi, nelle nostre vite. Giusto due frasi scappate di bocca. Io comunque non mi sarei mai sognato di raccontargli la mia situazione, non gli interessava e allo stesso tempo sapevo che non mi avrebbe raccontato la sua e andava bene così, sapevamo di essere alla frutta, di aver tirato troppo la corda che si stava ormai per spezzare. Silenziosamente ci compatimmo ma senza farci propriamente pena, non certo dandoci una spalla su cui piangere; il nostro silenzio suono quasi come un “non sei solo, amico”. Ogni tanto cercavo di schiacciare un pisolino, Kurt non sembrava un ragazzo molto loquace, ma ogni qualvolta che provavo a chiudere gli occhi quella macchina infernale faceva manovre tali che lo stomaco mi risaliva in bocca e il cuore iniziava a pompare sangue all'impazzata.
Dannati attacchi di panico, nemmeno quando sono ubriaco.
Credo che Kurt avesse notato il mio stringere le dita intorno al bracciolo fino a farmi diventare bianche le nocche, per fortuna non disse niente, accennò giusto un sorrisetto quando mi asciugai il sudore dalla fronte.
Due ore e svariati drink più tardi atterrammo finalmente a Seattle e per qualche minuto, in aeroporto, mi passò per la testa l'idea di invitarlo da me. Mi sembrava brutto lasciarlo solo, avevo l'impressione che lo fosse come me e non volevo restare solo nemmeno io. Non che fossi solo eh, ma la sua compagnia mi avrebbe fatto decisamente piacere quella notte. Sicuramente non avrei mai pensato di passare un venerdì notte con lui, prima di quella sera. Iniziavo a stare bene in sua compagnia benché non avessimo parlato poi così tanto. Più che altro avevamo bevuto.
Non sapevo come avrebbe risposto alla mia proposta, magari aveva altro da fare, forse avrebbe semplicemente declinato.
Alla fine decisi che volevo comunque fare un tentativo ma non appena mi voltai verso di lui mi trovai circondato dai fan. Cercai di sporgermi tra una testa e l'altra e finalmente lo intravidi, anche lui immerso in un mare di ragazzi mentre cercava di avvicinarsi al nastro trasportatore per recuperare la sua valigia.
Ci misi un'eternità a liberarmi di tutta quella gente e recuperare la mia; una volta che ne fui fuori, comunque, vidi che il mio amico Bryan era arrivato e mi stava aspettando all'uscita così mi avviai verso quelle enormi porte trasparenti e ne spinsi una con la mano libera.
“Duff, finalmente! Iniziavo a pensare che non saresti venuto amico!” disse circondandomi il collo con un braccio e reggendo un bottiglia di Jack mezza vuota con l'altra mano.
Per qualche istante mi scordai di Cobain, volevo solo arrivare a casa per bere ancora e farmi – quella era la mia idea di casa dolce casa ormai –, finché non vidi la sua figura passare sfuggente a pochi metri da me.
Non credo si accorse che ero lì con il viso immerso tra i capelli di Bryan; semplicemente si avvicinò ad una macchina nera, lasciò la valigia da caricare al guidatore e saltò su. Il primo pensiero che attraversò la mia mente fu limpido come un fulmine a ciel sereno: era solo. Completamente solo.
Non aveva nessuno.
Kurt non aveva nessuno.
Era circondato da persone fino a pochi secondi prima ma era comunque rimasto solo.
Solo nel suo soffrire, solo nel suo essere.
Solo.
Quel pensiero mi rimbombò per qualche secondo nella testa. Non che mi fosse mai importato un accidente di lui prima di quella sera, però… io avevo qualcuno, io avevo Bryan, avevo almeno un amico che era venuto a prendermi dopo un viaggio, anche se durato solo due ore. Lo so, stavo esagerando in preda all'euforia post atterraggio o più probabilmente in balia degli effetti di altro alcool, quello che mi aveva portato Bryan; era una stronzata eppure sentì il mio cuore stringersi mentre quell'auto se ne andava e portava via con sé Kurt e quel suo sguardo perso, puntato fuori dal finestrino, identico a quello che aveva quando lo avevo trovato seduto in aereo.
“Andiamo amico, andiamo a festeggiare!” Bryan mi riportò alla realtà con una pacca sulla spalla.
Gli sorrisi senza veramente desiderare farlo e onestamente per parte del viaggio di ritorno verso casa non riuscì ad ignorante quel retrogusto amaro che lo sguardo di Kurt, rimasto impresso nella mia mente, mi aveva lasciato. Nemmeno il Jack riuscì a scacciarlo…almeno per la prima metà della bottiglia.
* * *
8 aprile 1994
Mi sveglio e la prima cosa che vedo sono le piastrelle bianche del bagno. Quale bagno? Hotel. Di nuovo California? Ancora Seattle? Non è un buon segno comunque, risvegliarsi in bagno. Ho i muscoli intorpiditi e un braccio che circonda un paio di bottiglie vuote... o almeno così pare.
Che gran figlio di puttana, fino all'ultima goccia… penso voltando una delle due bottiglie a testa in giù. Il gran risveglio è coronato dal fatto che, oltre a non avere il mio solito cocktail del buongiorno affianco, mi trovo in una cazzo di vasca con una bionda collassata all'altezza a cui una bionda dovrebbe sempre essere, perlomeno in presenza del sottoscritto. Cerco di scrollarmela di dosso in qualche modo e barcollo fuori dalla vasca, aggrappandomi al lavandino per poi alzare la testa e trovarmi a faccia a faccia con un incrocio tra uno zombie e un barbone.
Bella cera, Duff – mi complimento con l'immagine riflessa nello specchio.
La solita faccia da stronzo che hai a quest'ora di pomeriggio – sembra voler replicare lei con quel sorriso sornione che mi fa venire voglia di rompere lo specchio a pugni. Sfortunatamente sono troppo stanco per farlo.
Muovo qualche altro passo verso il corridoio – finalmente riconosco casa mia – in cerca di quel qualcosa che il mio corpo inizia a reclamare a gran voce quando suona un telefono. Inizialmente me ne frego, risponderà qualcun altro ma quel qualcuno non si degna di alzare il culo così decido di rispondere, se non altro la testa non potrà martellare peggio di così una volta interrotto quel suono infernale.
“Duff? Sono Doug. Non indovinerai mai chi è morto.”
Ah, che novità. Un altro che ha tirato le cuoia. Sentiamo…
“Kurt Cobain, il cantante dei Nirvana. L'hanno ritrovato nella sua casa a Seattle, si è sparato un colpo in testa.”
Ora… vorrei dire che la notizia mi lasciò profondamente scosso e che chiamai i compagni di band di Kurt, Dave Grohl e Krist Novoselic, per far loro le mie condoglianze ma sarebbe una bugia grande quanto il mio problema con le droghe. Non volevo essere un ipocrita. Non avevo nemmeno voglia di prendere in mano la cornetta, per dirla tutta, tantomeno per chiamare quel Krist e dirgli “Ciao, ho sentito che il vostro cantante si è sparato in bocca, beh tanti cari saluti e a mai più”.
È imbarazzante se ci ripenso oggi ma avranno sicuramente capito la situazione. Quando vedi amici morire giorno dopo giorno ci fai il callo, semplicemente li guardi e pensi “Oh, ne è caduto un altro” come se fossero dei fottutissimi piatti in ceramica attaccati al muro.
Più o meno è stato così anche nei suoi confronti.
Oh, tu guarda. Ne è caduto un altro. Pazienza.
Ad oggi, nonostante ciò, non mi rammarico di essere stato probabilmente l'ultima persona con cui Kurt parlò prima di fare quello che fece a Seattle.
Non voglio affermare di saperne più di Dave, Krist o Courtney sulla sua vita in quegli ultimi tempi, neanche ci frequentavamo, eppure è come se quella sera, in quel breve scambio di frasi di circostanza e in quel chiacchiericcio superficiale, mi sia sentito più vicino io a lui che - probabilmente - tutte le persone che aveva intorno e che lo opprimevano in ogni modo. So come fanno. A volte va come deve andare, semplicemente; a volte anche i migliori amici di un'intera vita non riescono a leggerti nel pensiero, a volte nemmeno tua moglie.
A volte va così e basta.
A volte incontri uno sconosciuto che con uno sguardo ti legge dentro meglio di quelli che si definiscono tuoi amici e non gli importa sapere fatti e misfatti, ha già capito tutto perché è nella tua situazione interiore, sente quello che senti tu persino sembrando totalmente diverso da te. Totalmente? Così credevo.
Alla fine siamo semplici esseri umani…
Alla fine è solo questione di empatia.